“A Rio mi è tornato il mal di pancia come quando tiravo”, il ct Simone Vanni racconta il trionfo paralimpico

3 MIN 3 Novembre 2016

Dalla gloria olimpica allo straordinario successo con la nazionale paralimpica: la sua storia potrebbe essere il manifesto della passione per lo sport. Stiamo parlando di Simone Vanni, schermidore pisano campione del mondo nel 2002 e medaglia d’oro a squadre alle Olimpiadi di Atene 2004, dal 2013 Commissario tecnico della nazionale paralimpica italiana di fioretto. Alle paralimpiadi di Rio 2016 ha guidato gli atleti azzurri in un’impresa che è valsa due ori, quelli conquistati da Beatrice “Bebe” Vio e dalla squadra femminile di fioretto. Abbiamo raggiunto Simone a pochi giorni dalla tappa italiana della Coppa del mondo, che dall’11 al 13 novembre porterà a Pisa circa 150 atleti paralimpici per l’IWAS Wheelchair Fencing World Cup 2016, un appuntamento molto atteso soprattutto dopo l’exploit delle azzurre a Rio. Gli abbiamo chiesto di raccontarci come mai ha scelto di dedicarsi a questi atleti “speciali” e cosa si porterà dietro di questa straodinaria esperienza.

Simone, come sei arrivato ad allenare la nazionale paralimpica?
Alle olimpiadi di Londra 2012 ho fatto da sparring partner agli atleti della nazionale paralimpica, quando nel 2013 il consiglio federale ha scelto di nominare 3 diversi commissari d’arma sono stato scelto per il fioretto. Non si è trattato però del mio primo incontro con la scherma paralimpica: nel corso della mia carriera ho sempre avuto a che fare con i ragazzi disabili, quindi ero abbastanza abituato. Nell’U.S. Pisascherma, la società nella quale sono cresciuto e dove continuo a lavorare, si allenavano due ragazzi disabili che sono stati campioni mondiali ed europei.

Che differenza c’è tra gli allenamenti di un atleta di fioretto paralimpico e quelli di un atleta di fioretto tradizionale?
Sostanzialmente nessuna, solo la pedana cambia (ovviamente, perché si sta seduti e non in piedi), poi nel corso dell’anno ci sono gli stessi periodi di carico e scarico, le sedute che servono a migliorare la tecnica e quelle dedicate al fisico. La scherma ha la caratteristica di essere uno sport molto integrante: a un normodotato basta sedersi su una carrozzina per tirare ad armi pari, e questo non succede in tutte le discipline. Per questo spesso gli atleti paralimpici si allenano con i normodotati.

Quali sono gli appuntamenti più importanti nella stagione di un atleta paralimpico?
Gli appuntamenti sono più o meno gli stessi della scherma tradizionale. Se si prende in considerazione il quadriennio ci sono due campionati europei, un mondiale e le paralimpiadi. Ogni anno poi ci sono 6-7 gare di Coppa del mondo, quest’anno siamo felici di ospitare a Pisa, la mia città natale e quella in cui continuo a vivere e lavorare, una delle tappe di coppa.

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A livello internazionale, i risultati della scherma paralimpica ricalcano quelli della scherma classica oppure ci sono delle sorprese?
Diciamo che i risultati sono abbastanza in linea con l’esperienza e la competenza che una federazione ha accumulato nel corso degli anni. Ad esempio la nazionale paralimpica italiana è molto forte, forse non è stato ancora raggiunto il livello della scherma olimpica, soprattutto per quanto riguarda la professionalità. Evidentemente c’è anche un problema di minore disponibilità economica, ad esempio per gli atleti paralitici non c’è il sostegno dei gruppi sportivi, così prezioso per dare la possibilità ad un atleta di concentrarsi esclusivamente sull’attività sportiva.

Tu conosci bene l’emozione che si prova vincendo un oro olimpico, cosa cambia a vincerlo da commissario tecnico?
È stato molto emozionante, mi è tornata l’adrenalina e il mal di pancia mattutino come quando tiravo. Sinceramente pensavo di essere più preparato da questo punto di vista. Da ct è più difficile perché non devi pensare solo a te stesso, ma hai pensieri per tutti, e questo è molto più impegnativo anche emotivamente.

Tu sei l’allenatore di un’atleta che dopo la medaglia d’oro a Rio è diventata una star (arrivando fino alla Casa Bianca). Qual è il segreto di Beatrice “Bebe” Vio?
La sua vera forza è la sua testa, è sempre concentrata e ha una voglia di vincere che non ha pari, anche in allenamento. Una cosa che ho visto in pochi atleti, come ad esempio in Valentina Vezzali.

Cosa può rappresentare Bebe Vio per lo sport paralimpico in Italia?
Per il nostro movimento si tratta di un’eco importantissima. Con quello che fa riesce a mostrare come si può vivere una disabilità, Bebe fa parte di quel gruppo di atleti disabili in grado di diventare dei “personaggi”, come ad esempio Alex Zanardi, e di far vedere che con la volontà si può ottenere tutto. Credo che abbia ragione chi sostiene che ormai sono gli atleti paralimpici a portare avanti gli autentici valori dello sport, intaccati da scandali, doping, scommesse e in generale da aspetti che con lo sport hanno poco a che fare.

Se un giorno passerai a fare altro, cosa ti porterai dietro di questa esperienza?
Sicuramente il grande lavoro che è stato fatto nel biennio paralimpico e tutte le grandi emozioni provate con questi fantastici ragazzi.

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